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C'era una volta un regno fatto di plastica e meraviglia.
Si ergeva con aria di sfida ai margini di un ampio parcheggio, incastrato tra un supermercato, una lavanderia a secco e una strada a quattro corsie che non smetteva mai di ronzare. Dall'esterno, sembrava quasi un luogo ultraterreno, con i suoi colori vivaci e le finestre ovali che brillavano al sole come gli occhi di un allegro robot.
Lo chiamavamo in molti modi – Il Labirinto, La Torre, Il Forte – ma mai con il suo vero nome: era troppo noioso, troppo adulto. Per noi, era semplicemente il posto giusto. Quello in cui il tempo si fermava, dove i genitori sparivano e dove potevi diventare qualcosa di più grande, più strano, più rumoroso di quanto il tuo corpo avesse mai permesso.
Si ergeva alto, vestito di rosso e giallo, e offriva le sue braccia a chiunque osasse entrare. Nel momento in cui quelle doppie porte si spalancavano, si varcava la soglia non solo del gioco, ma del mito. L'aria cambiava, e un odore denso e sciropposo ti avvolgeva: grasso, plastica e vecchie bibite, certo, ma anche gioia. Gioia pura e appiccicosa.
Lasciavamo le scarpe sparse per terra, come offerte al tempio. Tenevamo solo le calze annerite, a volte bucate, e poi iniziava la salita.
C'erano scale a chiocciola in vinile e reti per arrampicarsi che mettevano alla prova il tuo coraggio con la loro oscillazione. I tunnel si snodavano sopra di noi come gli intestini di una bestia meccanica: dal rosso al blu al giallo, ognuno dei quali offriva mistero e magia. Potevi strisciarci dentro per sempre e non uscirne mai più uguale.
E al centro di tutto: la piscina di palline. Un mare scintillante di colori e caos. Ci tuffavamo come atleti olimpici, come subacquei, come sciocchi. Non importava che qualcuno in passato ci avesse sicuramente fatto pipì dentro. Era nostra. Affondavamo, riemergevamo ridendo, ci tiravamo palle in testa, dichiaravamo guerra e facevamo la pace, tutto prima che i nostri genitori potessero scartare i loro panini.
A volte, salivamo fino in cima, fino alla cupola di vetro che si affacciava sul mondo. Potevi sederti lì come un monarca in una capsula di calore e plexiglas annebbiato, a gambe incrociate, a osservare il tuo regno. Fuori, le auto sfrecciavano e gli adulti si affrettavano verso vite che non capivamo. Noi, dentro, eravamo degli dei.
Le regole erano poche e le imparavamo in fretta: non spingere mai troppo, aiutare i più piccoli se piangono e non chiedere aiuto a nessuno a meno che qualcuno non stia sanguinando. E sempre, sempre a turno sullo scivolo. Quello scivolo rosso e tortuoso, liscio come il burro, dove ognuno aveva il suo momento di slancio.
C'era un ragazzo – ce n'era sempre uno – che rivendicava il suo posto in cima allo scivolo e si dichiarava il Re. Ti bloccava la strada, sfidandoti a passare. "Chi va là?" abbaiava con la sua migliore voce da cavaliere, e tu dicevi qualcosa di ridicolo come "Sono la Principessa di Playland" solo per farlo ridere. Poi ti lasciava passare, e tu cadevi giù urlando, con i capelli scompigliati, il mondo che girava più veloce di quanto tu potessi tentare di afferrarlo.
I compleanni erano rituali sacri. Se eri abbastanza fortunata da essere invitata, ti sedevi nella sala delle feste con le pareti di vetro, con una corona e una torta che sapeva di giallo e blu. A volte si presentava Ronald in persona, con un sorriso da dio sui trampoli, le braccia tese. Alcuni di noi lo adoravano. Altri urlavano. Era in parte clown, in parte mito, in parte sogno febbrile.
I genitori rimanevano nelle loro zone designate, sorseggiando bibite da bicchieri di carta, ridendo troppo forte. Non entravano nel regno se non erano convocati. E noi non li convocavamo mai, a meno che non si trattasse di cose serie: sangue, vomito, ingiustizia. Quello spazio era nostro. Per qualche ora, eravamo creature selvagge.
E poi, un giorno, scomparve.
Nessun annuncio. Nessuna cerimonia. Solo dei coni intorno all'area giochi per una settimana. I tunnel scomparirono. La piscina di palline venne smantellata, la cupola portata via a pezzi come un animale morto. Il regno è crollato, la silenziosa sparizione di qualcosa di non più necessario.
All'epoca non gli diedi molta importanza. Stavo crescendo. Altre cose prendevano il suo posto: piste di pattinaggio, cinema, il centro commerciale. Ma a volte, durante i viaggi in macchina, guardavo fuori dal finestrino mentre passavamo proprio in quel posto, e ne sentivo il fantasma che mi attraeva. Niente più risate lì, nessuna eco, nessuna striscia rossa che spuntava fuori come la lingua di un serpente.
Ora, anni dopo, sono seduta allo stesso tavolo: un edificio diverso, forse. Ma stesso logo, stesso odore di patatine fritte. Di fronte a me, mia figlia fissa uno schermo. Il suo viso è illuminato di blu da un cartone animato infinito che parla di dolci, squali o bambole dai capelli scintillanti. Il suo cibo è lì, intatto. Sta ridendo, certo. Ma non è qui. Non in questo spazio. È da qualche altra parte, persa nei pixel.
C'è un cartello dove un tempo c'era la vecchia area giochi. Dice "zona tranquilla" in un carattere allegro, come se ci fosse qualcosa da festeggiare. Ci sono un paio di panchine, e una triste scultura di metallo a forma di mela. I bambini le girano intorno, annoiati. I genitori si aggirano lì vicino, osservandoli come falchi, timorosi di creare un caos inaspettato.
Ma nessuno si arrampica più. Nessuno corre. Nessuno costruisce imperi con tunnel, piscine di palline e sudore.
Abbiamo barattato la natura selvaggia con la sicurezza, la nostra immaginazione con la programmazione. La libertà con la supervisione. Non sono sicura che sappiamo cosa abbiamo perso.
Guardo mia figlia. È bellissima. È luminosa. La amo più del mio respiro. Ma vorrei, anche solo per un giorno, che potesse provare cosa si sente a stare a piedi nudi in quella torre. A governare un regno di plastica con il gelato sul mento e il ketchup sulla maglietta. A scivolare ad occhi chiusi nella gioia.
Quel posto non esiste più, tranne che in me. Ma forse è qualcosa.
Forse è sufficiente ricordare.